Pobedi Siniša. Autoritratto di Mihajlović: petto in fuori e sguardo accigliato.

Non c’è nulla di cui vergognarsi nell’essere malati. Nell’indossare una mascherina, un cappellino o un turbante per coprire una calvizie da chemio. Nel mostrare un cerotto che nasconde un cvc dove stasera mi riattaccheranno una flebo. […] L’unica cosa di cui ci si deve vergognare è arrendersi senza combattere, abbandonare le speranze, rassegnarsi e non restare attaccati con tutte le proprie forze alla vita. Che è meravigliosa e vale sempre la pena di essere vissutaSiniša Mihajlović

Mi piacciono i libri che parlano di calcio perché svelano l’anima e il colore di una città, di un quartiere, di una zona geografica: è nello sport che spicca il lato viscerale, genuino e identitario di un popolo.

Qualche mese fa ho acquistato la biografia di Siniša Mihajlović La partita della vita edita dalle Edizioni Solferino in formato e.book; ho divorato il libro in due giorni, tra una sbirciatina su YouTube alla ricerca dei potenti calci piazzati di Miha, dei cori a lui dedicati dalla Crvena Zvezda e la consultazione di due cartine geografiche squadernate sulla scrivania: quella della Jugoslavia del maresciallo Tito e quella attuale. 

Andrea Di Caro ha dato forma e sostanza ai racconti di vita con cui l’attuale allenatore del Bologna si è messo a nudo, raccontando il percorso che lo ha fatto diventare calciatore, allenatore, uomo, fino all’amara scoperta della leucemia. Il carisma di Mihajlović è anche frutto della sua capacità di dipingere se stesso come un figlio della cultura dell’Europa dell’Est, di attingere a valori militari nella sua visione della vita e del calcio: l’onore, la lealtà, l’attrazione per la battaglia cavalleresca, la severità e la freddezza nel giudicare chi gli sta di fronte. Il merito di De Caro è quello di mettere in risalto nel libro le trasformazioni di Mihajlović uomo, calciatore, allenatore, tracciando un percorso narrativo che dà colore e forma all’imponente mole di racconti personali e nazionali messa a disposizione dall’allenatore serbo. 

È un libro che non ha alcuna pretesa: semplicemente racconta la storia di un uomo di sport che ha raggiunto il successo grazie alle sue doti tecniche, al temperamento, alla caparbietà, alla schiettezza, alla risolutezza con cui si è fatto conoscere e rispettare dentro e fuori il mondo sportivo. È anche una raccolta di pensieri che mettono in mostra il suo lato umano, le sue debolezze, la forza d’animo messa in campo dopo la scoperta della leucemia.

Di Caro riesce a dribblare il racconto di taglio emotivo, l’immagine stereotipata del “sergente di ferro” (nomignolo affibbiatogli da un giornalista della Gazzetta Sportiva) e il lieto fine: di Mihajlović mette in luce l’identità e il senso di appartenenza, la vocazione a combattere contro tutto e tutti con irruenza, anche quando la una brutta malattia prende il sopravvento e rischia di spazzare via tutte le certezze.

Il racconto è prevalentemente incentrato sul mondo del calcio, sul prematuro tuffo nel professionismo, su un’adolescenza turbolenta, condizionata dalle difficili circostanze economiche di partenza che sono servite come palestra per affrontare la vita e per non perdersi in un contesto sociale e politico degenerato in guerra etnica.
In un capitolo del libro Siniša afferma con la sua consueta fierezza serba:
“Sono sempre stato attento alle mie cose: a conservarle, non rovinarle, metterle a posto. […] Quando hai poco, vuoi che quel poco duri a lungo".
Così, senza piangersi addosso, racconta episodi della sua infanzia a Borovo e descrive le città serbe dopo i bombardamenti, con l’identico furore dei suoi calci di punizione e dei suoi tackle:
“Non avevamo il riscaldamento e gli inverni erano rigidissimi. Quando entravi in camera per metterti al letto, il freddo ti penetrava nelle ossa. Ti infilavi sotto le coperte di lana grezza, così pesanti da non riuscire più a girarti. Tenevi sotto pure la testa perché se la lasciavi fuori, quando respiravi, usciva il vapore”.

Per chi è cresciuto come Siniša nella vulgata marxista del Maresciallo Tito è fisiologico apprezzare ancora di più i comfort della bella vita che offrono i club di calcio prestigiosi; la possibilità di comprare vestiti di alta sartoria, mangiare nei migliori ristoranti, godere delle cure dei migliori medici, trascorrere le vacanze nelle località più belle e nei posti più lussuosi, magari frequentando belle donne del mondo dello spettacolo; ma è anche importante non rinnegare le proprie origini. Solo rimanendo fedeli a se stessi si può conservare un atteggiamento critico verso i paradossi dell’attuale società dell’apparenza e del consumo terminale, un mondo in cui un calciatore famoso guadagna mille volte di più di un chirurgo.

Mihajlović descrive la disgregazione della Jugoslavia socialista incrociando i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, episodi personali ed eventi storici che hanno fatto da miccia alla polveriera dei Balcani, fino all’esplosione di quel conflitto etnico-religioso che ha visto contrapposti serbi, croati, sloveni, bosniaci, montenegrini, macedoni, kosovari, cattolici, musulmani e ortodossi. 

Anche per questo il calcio e il tifo balcanico non possono essere giudicati con il metro del moralista e del benpensante, con il fardello attuale del politically-correct. C’è un intero capitolo in cui l’allenatore del Bologna chiarisce il suo reale rapporto di amicizia con Željko Ražnatović detto Arkan, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa per le accuse che gli sono piovute addosso a causa di uno striscione infelice esposto dagli ultras laziali quando Mihajlovic militava nella squadra biancoceleste. 

Nel libro si passa dai racconti dal calcio jugoslavo negli anni ottanta-novanta, con i furiosi scontri allo stadio Maksimir di Zagabria tra gli ultras della Stella Rossa e della Dinamo Zagabria, all’incubo della leucemia diagnosticata nell’estate del 2019. Belle pagine sono quelle che raccontano un Siniša più intimo: i il rapporto conflittuale con il padre, i ricordi della guerra e le solide amicizie nate grazie al football.

Una vita intensa scorre davanti agli occhi del lettore: il primo stipendio da calciatore del Vojvodina di Petrović (in buona parte utilizzato per mantenere la famiglia che non riesce ad arrivare alla fine del mese), il culto per gli addominali di acciaio che gli inculca Slavko Obadov, l’approdo tanto agognato nella Stella Rossa per cui fa il tifo sin da piccolo, l’esperienza nella nazionale jugoslava di Jugovic, Bokšic, Stojković, Prosinečki, Katanec, e poi ancora l’approdo in Italia, gli anni nella Lazio stellare costruita da Cragnotti, l’esperienza comunque positiva in maglia blucerchiata, l’approdo all’Inter, il senso di vuoto e di panico per la malattia da affrontare, la violenza della chemio e le paure del trapianto. Le priorità della vita cambiano radicalmente senza incidere sul temperamento di Mihajlović, sulla sua innata voglia di reagire.

Il libro è strutturato come una sorta di mosaico cronologico e si rivolge al pubblico della cosiddetta letteratura sportiva in cui il calcio e la politica si intrecciano, ma è piacevole anche per chi volesse iniziare ad esplorare il legame indissolubile tra sport e cultura che caratterizza da sempre i Balcani.


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  • Titolo: La partita della vita
  • Autore: Siniša Mihajlović con Andrea Di Caro
  • Editore: Solferino, 2020
  • Cartaceo: Euro 18,52 - Kindle: Euro 9,99
  • Pagine: 456 p., brossura
  • Genere: letteratura sportiva
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